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Mio nonno aveva la quarta di reggiseno

Man Ray, Sleeping Woman (1931) La solarizzazione si ottiene esponendo brevemente alla luce la carta fotografica mentre si trova nel bagno di sviluppo

Chiaramente avete cliccato su questo post perché incuriositi dal titolo, ma immagino che nessuno di voi abbia creduto che io stessi dicendo sul serio, avrete pensato ad una battuta, un doppio senso, un’iperbole; non penso che siate disposti a credere che mio nonno avesse la quarta di reggiseno. Nemmeno lo fareste se ora vi facessi vedere la foto di mio nonno, arzillo e scheletrico, con due tette da far invidia alla Bellucci: mi direste che gliele ho messe con Photoshop e che probabilmente non ho niente di meglio da fare nella vita.
Come ogni volta che qualcuno col Photoshop ci va giù un po’ troppo pesante, si riapre il dibattito su quanto sia lecito l’uso di photoshop in fotografia, quanto il visitatore di una mostra si senta tradito o quanto una rappresentazione delle persone troppo lontana dalla realtà possa generare insicurezza e senso di inadeguatezza.
Credo che Michele Smargiassi nel suo blog Il Fotocrate abbia già detto quanto di più saggio e sensato si potesse dire sulla questione, quindi non mi resta che occuparmi delle cose facete e più glam, tipo la scelta del marchio di intimo Aerie di non ritoccare più le modelle con Photoshop (qui un articolo sulla questione dell’Huffington Post) che a quanto pare ha fruttato un 20% di aumento nelle vendite.

 

Foto e collage di Jean-Paul Goude
Facciamo un passo indietro e chiediamoci cosa ci aspettiamo da una fotografia. Molti risponderebbero che documenti la realtà, che è una risposta ingenua e imprecisa ma contiene un germe di verità. L’atto del fotografare, nel momento in cui si aziona l’otturatore, è un processo essenzialmente ottico: una foto si fa con l’ottica, quello che vedo nel visore prima di scattare è la mia fotografia. Quindi se lo vedo io c’è: posso aver scelto un’inquadratura o un’altra, un punto di vista o un altro, un obiettivo o un altro, una profondità di campo o un’altra. E’ vero che ho deciso io cosa vedere e cosa no, cosa mettere in risalto e cosa no, da che punto di vista vedere le cose e in questo ho espresso il mio giudizio su cosa sto fotografando, ma innegabilmente cosa vedo attraverso il visore è lì davanti a me in quel momento. Il resto del processo fotografico sta nel non rendere effimera questa visione ma fissarla su un supporto: dietro l’otturatore posso catturare la mia immagine con un sensore digitale, con una pellicola ai sali d’argento o con cos’altro si inventeranno nel futuro e sottoporre questa, che altro non è che una presa dati, ai processi che mi porteranno ad un’immagine visibile. Chiaramente in questi processi posso intervenire non tanto a modificare l’immagine, che prima di tali processi non c’è, ma a creare da questa presa dati l’immagine che voglio. E posso veramente fare di tutto e di più, anche in analogico posso solarizzare, fare un cross processing, dei collage, dei fotomontaggi, dipingere sull’immagine.
Il risultato finale può essere anche molto diverso da quello che ho visto nel visore e non c’è veramente un punto ovvio in cui mettere un paletto, prima del quale la fotografia è fedele a ciò che vedevo e dopo non lo è più: anche una fotografia in bianco e nero non è fedele, perché io fortunatamente vedo a colori e non in scala di grigi. Ma a nessuno guardando una fotografia in bianco e nero passa per l’anticamera del cervello che quelli siano i colori “veri”, è ovvio a tutti che non lo sono ed è proprio su queste ovvietà sottointese che si nasconde il problema.
Se ho assistito ad un fatto e voglio narrarlo, posso farlo in modi diversi. Se lo presento come racconto posso prendere spunto dal fatto e arricchirlo con ciò che voglio e nessuno se ne lamenterà, se lo racconto una sera al bar agli amici penseranno che la sostanza sia vera, poi magari sto esagerando qualche dettaglio per renderlo più divertente ma va bene così, se sto deponendo in un aula di tribunale si aspettano che racconti tutto e solo quello che mi ricordo sia accaduto. Nessuna di queste opzioni è migliore dell’altra, purché avvenga nel giusto contesto.
Tornando quindi ad Aerie e alle foto di intimo in pubblicità, andando all’osso della questione il vero puntò è quanto sia credibile che la modella sia effettivamente così figa (figa rispetto a certi canoni). Perché il trucco pubblicitario funziona finché si è indotti a sognare di poter essere come la persona ritratta, magari proprio comprando il prodotto pubblicizzato, forse non ci arriveremo ma almeno ci avviciniamo. Se l’immagine è ancora credibile svolge il suo compito, quando ormai ci si è convinti che tanto sia tutta fotoscioppata e allora grazie, col Photoshop sono figa pure io, ecco che quello che ci vuole per noi non è più quel completino ma Photoshop.
E già che ci siamo, ci sdegniamo anche che ci possano prendere così per stupide e che se la tipa è fotoscioppata allora magari pure il completino sembra carino ma poi visto dal vero sarà una schifezza.
Evidentemente si è passato un po’ il segno e il pubblico sta dando fiducia a chi ci presenta delle foto un po’ sciatte ma che sembrano vere, trascurando ovviamente che ci stanno ingannando pure lì (di quella della Dove e della sciatteria pianificata spacciata per naturale abbiamo parlato qui).

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