Gli Italiani di Bruno Barbey

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Gli Italiani di Bruno Barbey, in mostra a Torino a Palazzo Barolo
dal 12/9/25 al 11/1/26

Perché visitare la mostra

La mostra ripercorre le tappe di un reportage che Bruno Barbey realizzò lungo l’Italia negli anni sessanta. Il lavoro avrebbe dovuto essere pubblicato dall’editore francese Robert Delpire, come terzo volume dell’Encyclopédie essentielle, collana di libri che accostavano testo e immagini e che già comprendeva Les Américains di Robert Frank (1958) e Les Allemands di René Burri (1962). Uscì invece nel 2002.

Per capire il lavoro di Barbey, sarebbe importante conoscere The Americans di Robert Frank (se avete dei dubbi su questa affermazione basta confrontare le copertine qui sotto).
Se per caso non conoscete Robert Frank, questa è una buona occasione.

Copertine di The Italians di Bruno Barbey e The Americans di Robert Frank

Gli Italiani e Gli Americani. Barbey e Frank

Visto che non possiamo non guardare al lavoro di Barbey senza confrontarlo continuamente con quello di Frank, iniziamo ad analizzare qualche punto di contatto e qualche differenza di cui possiamo renderci conto anche senza conoscere gli autori.

Noi siamo italiani e non americani, tuttavia non siamo italiani degli anni sessanta, quasi tanto quanto non siamo americani degli anni cinquanta. Quindi, nonostante il titolo, la mostra non sta parlando di noi.

Robert Frank nasce in Svizzera nel 1924 ed emigra con la sua famiglia negli Stati Uniti all’età di 24 anni (1948). Torna in Europa tra il 1950 e il 1953 per poi iniziare nel 1955 il progetto fotografico che costituirà The Americans.

Bruno Barbey nasce nel 1941 in Marocco da famiglia francese e nel 1959/1960 all’età di 18 anni frequenta la scuola di Arti e Mestieri in Svizzera. Tra il 1962 e il 1966 iniziano le sue scorribande in Italia a bordo del suo maggiolino, da cui nascerà Gli Italiani.

Entrambi ci offrono una sguardo esterno su una società, seppur con storie personali piuttosto diverse. Entrambi hanno ben chiaro cosa non vogliono fare. Frank rifugge la fotografia di moda, benché sia la strada più semplice e remunerativa per un fotografo dell’epoca. Barbey si annoia a scuola dove il programma prevede fotografia industriale e pubblicitaria.
Robert Frank vede l’America come il luogo naturale in cui può dedicarsi alla fotografia nel modo in cui lui la intende. Bruno Barbey vede l’Italia e la sua popolazione aperta e disponibile come un’ottima palestra a portata di mano, per esercitarsi sul reportage.

Fotografare noi e fotografare loro

In fotografia, come in qualunque altro discorso, occorre distinguere se si parla di sé o di altri. Nel caso in cui ci si riferisca ad un sé collettivo, è altrettanto importante capire dove stia il confine che permette all’autore di definire chi appartiene ancora al “noi” e chi ne è escluso.

Facciamo un esempio semplice: vedo una famiglia di tre persone in motorino. È normale?
Se in quello che è il mio mondo (il mio “noi”) lo è, non ci farò nemmeno caso e difficilmente penserò di fotografarli solo perché sono in tre in motorino. Magari c’è un altro motivo per cui questa famiglia mi sembra interessante e decido di fotografarla: sarà comunque una foto che rappresenta tre persone su una vespa, ma non sarà quello il punctum.

Se invece nel mio mondo non si fa, è facile che attiri la mia attenzione e decida che è una ragione sufficiente per azionare l’otturatore.

La domanda successiva riguarda invece il fruitore della foto: fa parte del mondo che ho fotografato o no?
Perché, a seconda del caso, anche lui considererà degno di nota o meno il semplice fatto che tre persone stiano viaggiando su un motorino.

Portando il ragionamento all’estremo, si potrebbe concludere che nulla possa essere fotografato: se sono parte di un mondo, non ci troverò mai niente che non sia una banale quotidianità. E se qualcosa attirerà la mia attenzione, esisterà sempre un gruppo più ristretto a cui quella specifica cosa non farà né caldo né freddo. Per cui, lo sguardo curioso sembrerebbe essere necessariamente un sguardo esterno.
D’altra parte, con uno sguardo esterno, si rischia di cogliere semplicemente gli aspetti più pittoreschi di una realtà, ricadendo nel semplice documentarismo didascalico.

In questo caso, mi costa ammetterlo, la ragione sembra stare nella famosa via di mezzo, tanto cara alle persone di buon senso. Bisogna fare un piccolo passo indietro rispetto alla propria realtà per riuscire a vederla e un lungo passo dentro la realtà altrui per riuscire a comprenderla.

Bruno Barbey ci è riuscito?

Per provare a darsi una risposta, bisogna andare alla mostra.

 

Questo è il blog dello Studio Fotografico Plastikwombat, Silvia Vaulà e Paolo Grinza fotografi

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