Foto da non fare

foto da non fare

Quando ci si avvicina alla fotografia, spesso ci si preoccupa di quali siano le foto giuste da fare, di quali soggetti siano migliori di altri. Invece si dovrebbe partire proprio dalle foto da non fare, che purtroppo invece sono proprio le prime che molti fanno.
Ma come è possibile?

La fotografia ha quasi due secoli di vita: molti degli autori classici che studiamo o vediamo alle mostre, sono vissuti in un contesto storico molto diverso dal nostro. Una fotografia che anche solo cinquant’anni fa aveva uno scopo, se fatta oggi ne avrebbe uno completamente diverso.


Vediamo quattro esempi di foto che hanno fatto la storia, ma che oggi non dovremmo più fare.

  • 1- Foto di persone indigenti o in difficoltà
  • 2- Foto di disabili e minoranze
  • 3- Foto di manifestanti
  • 4- Foto coloniali

Foto di persone indigenti o in difficoltà

Dorothea Lange viene incaricata dalla FSA (Farm Security Administration) assieme a Walker Evans, Arthur Rothstein, Jack Delano, Gordon Parks di documentare gli effetti sull’America rurale della Grande Depressione. Parliamo del 1929 e la televisione era stata inventata nel 1927. Senza queste immagini nessuno negli Stati Uniti avrebbe mai saputo quello che stava succedendo.

Florence Thompson, la donna migrante nella foto di Dorothea Lange, ha in seguito definito quell’immagine come una sorta di maledizione per lei. Era diventata suo malgrado il volto della povertà.

In casi come questi, bisogna sempre chiedersi: cosa sto prendendo e cosa sto dando in cambio a queste persone?

All’epoca i fotografi della FSA hanno sicuramente documentato una realtà che altrimenti sarebbe stata sconosciuta non solo all’opinione pubblica, ma anche ai politici stessi. Teniamo conto che una delle prime compagnie aeree statunitensi, la Delta Airline, è stata fondata nel 1925: muoversi per gli states non era rapido e facile come sarebbe stato dagli anni ’60 in poi.
Benché i dati parlassero chiaro di migrazioni, carestie e povertà, queste immagini sono servite anche a chi era al governo ad avere una visione della situazione.

La foto al povero o al mendicante che potremmo fare oggi, a chi è utile?

Non lo sappiamo forse tutti che attorno alla stazione ciondolano tanti senza tetto? Abbiamo veramente bisogno di fotografarli col pretesto di documentare e sensibilizzare? Magari anche no.

La stessa cosa per chi versa in altre situazioni di disagio, di emarginazione, di tossicodipendenza.

Foto di disabili e minoranze

Insomma, tutti quelli che una volta erano considerati dei “freak”. A meno che non siamo rimasti così indietro da considerarli ancora tali, perché mai dovremmo sceglierli come soggetto, in quanto tali?

Diane Arbus, nata in una famiglia borghese, consapevole del suo privilegio, tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si dedica a fotografare tutte quelle persone che non erano considerate “normali” e che quindi venivano o nascoste in casa per vergogna o esibite nei circhi e nei freak show come attrazione.

Lo scopo della sua documentazione è quello di restituir loro la dignità, portando alla luce chi viveva nell’ombra e guardando con uno sguardo umano chi veniva esibito come uno scherzo della natura.

Nell’anno 2025 questa cosa dovremmo averla superata, no? Abbiamo veramente bisogno di “denunciare” o dare visibilità in questo modo?

Piuttosto, quando mettiamo in cantiere un progetto, cerchiamo di essere inclusivi: ricordiamoci sempre il bilancio tra cosa offriamo e cosa chiediamo in cambio.

Foto di manifestanti

Se qualcuno scende in piazza, vorrà pur avere visibilità, no?

Sì, spesso è così ed è importante che una stampa libera ne dia informazione.
Ma se l’informazione non è il nostro mestiere, dovremmo pensarci molto bene prima di fotografare.

Questo soprattutto se siamo in un paese (o in circostanze) dove i diritti umani non sono opportunamente garantiti.
Oggi ci sono software di riconoscimento facciale che permettono di identificare una persona in mezzo alla folla. Non vale la pena mettere in pericolo la vita o la libertà dei manifestanti perché vogliamo giocare a fare i fotogiornalisti.

Dato che oggi tutti abbiamo i mezzi per scattare delle foto e diffonderle, se ritengono lo possono fare i manifestanti stessi. Se vogliamo supportare la causa è molto più utile e sicuro condividere cosa hanno già diffuso loro. Oppure, se è qualcosa che ci sta particolarmente a cuore, possiamo contattare gli organizzatori della manifestazione e chiedere se pensano che sia una buona idea che noi documentiamo.

Questo vale per le manifestazioni e per qualunque altra situazione che possa esporre le persone fotografate a pericoli o rappresaglie.
Diverso è se siamo stati testimoni di un reato. Ma qui non si parla più di fotografia ma di prove, che comunque vanno fornite alle forze dell’ordine e non postate su internet.

Foto coloniali

Non sapevo che definizione dare a questo tipo di foto perché cercavo una parola per definire i soggetti, quando invece “coloniali” mi sembra descrivere il comportamento di chi fotografa, che poi appunto è quello che conta.

Dovremmo essere coscienti che quando andiamo in un paese più povero, i rapporti di forza tra noi e i potenziali soggetti delle nostre foto sono nettamente a nostro vantaggio. Il fatto che se provi a fotografare qualcuno che si trascina con le borse della spesa, qui nel tuo paese ti mandi probabilmente a fare in culo invece là si lasci fotografare e magari sorrida, non significa necessariamente che “là” siano più gentili e ben disposti.

Significa probabilmente che i soldi dei turisti (che a volte vanno direttamente come mancia a chi si fa fotografare, infatti è famosa è la truffa dei falsi bramini a tariffa sul lago Pushkar) sono troppo preziosi per potersi permettere di mandarli al diavolo. Quindi sì, stiamo pagando qualcosa per portarci a casa le nostre immagini pittoresche, ma queste persone non hanno veramente molta scelta se accettare o non accettare lo scambio.

Ancora una volta: mio nonno (che era del 1910) nel 1980 non aveva mai visto di persona qualcuno che provenisse da un altro continente. Quando ha visto il primo africano, era tutto contento perché il tizio era proprio scuro come lo aveva visto nelle foto.

Direi che anche questa cosa nel 2025 dovremmo averla superata, no?

Conclusioni

Ogni volta che fotografiamo una persona, lei dà qualcosa a noi, ma noi dobbiamo dare qualcosa a lei: non possiamo solo prendere. Chiediamoci seriamente, senza nasconderci dietro l’ipocrisia, cosa stiamo dando in cambio. Se cosa possiamo dare non è abbastanza di valore, o ancora peggio, non stiamo dando nulla o stiamo facendo solo danni, un po’ di coscienza ci dovrebbe suggerire di lasciar perdere.

Le immagini sono utilizzate a fini di analisi e discussione, in conformità all’art. 70 L. 633/1941. Tutti i diritti appartengono ai rispettivi autori

 

Questo è il blog dello Studio Fotografico Plastikwombat, Silvia Vaulà e Paolo Grinza fotografi

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